‘Sicilian Ghost Story’ apre la Semaine de la Critique a Cannes: fiaba oscura, onirica e suggestiva

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Fabio Grassadonia e Antonio Piazza sono già stati a Cannes col loro primo lavoro, quel curioso ‘Salvo’ che ha suscitato, a ragione, gli entusiasmi della critica, e che  come questo ‘Sicilian Ghost story’ era una storia di mafia e d’amore. Perché, in effetti, i talentosi registi confermano di essere a loro agio nel trasfigurare tragedie in racconti ‘altri’, quasi come una difesa contro il dolore e la crudeltà. Contrapponendo, quindi, la purezza e la bellezza dell’amore a un contesto marcio, omertoso, rassegnatamente compromesso. Prendendo spunto da un terribile fatto di cronaca, i registi decidono stavolta di imbastire una fiaba oscura e dal potente fascino visivo che racconta di una giovane adolescente, Luna, che non vuole arrendersi alla sparizione del ragazzo di cui è innamorata, il coetaneo Giuseppe, figlio di un boss mafioso locale. Sfruttando la bellezza aspra e al contempo onirica del paesaggio siculo, rappresentato da una natura multiforme, pulsante e partecipe, ‘Sicilian ghost story’ crea un universo a sé stante, fatto di visioni, simboli (vedasi il ruolo degli animali), premonizioni e, ovviamente, spettri, che intervengono nella vita umana per dare risposte, aiuto o conforto. Un film suggestivo, grazie alla raffinatezza della regia, che cerca sempre soluzioni visive innovative, ai notevoli stacchi del montaggio, all’uso efficace delle musiche e alla splendida fotografia di Luca Bigazzi, che gioca mirabilmente con la luce e l’oscurità, procurando inquietudine, smarrimento e sospensione. Buona anche la direzione degli attori, soprattutto della giovane Julia Jedlikowska, alle prese con un ruolo di grande complessità, che alterna dolcezza, tenacia, vitalità e disperazione, contrapponendosi a un mondo adulto che preferisce chiudere gli occhi. Se c’è qualcosa che, però, non funziona in ‘Sicilian Ghost story’ è a livello di scrittura, in quanto l’insistito gioco sogno/realtà risulta spesso ingombrante e/o forzato e l’alternarsi di due o tre (apparenti) finali è poco efficace, tirando il film troppo per le lunghe. È innegabile però che ci troviamo di fronte a un prodotto pregevole, che manifesta fortemente la propria autorialità in un panorama italiano non certo esaltante.

Alberto Leali